Davide Pioggia
22 anni fa
Salve.
Premetto all'esposizione della mia domanda una precisazione: seguo questo ng
solo saltuariamente e distrattamente, e non sono sicuro che quanto sto per
chiedere e affermare non sia già stato ampiamente discusso in passato. Onde
risparmiarvi fastidiose ripetizioni ho provato a fare delle ricerche con
google, ma ho trovato solo dei post che discutono gli argomenti in oggetto
senza afforntare gli aspetti che mi interessano maggiormente in questa
circostanza. Mi scuso pertanto nell'eventualità chiedessi cose già chiarite
e risapute, e pregherei in tal caso di indicarmi dove andare a cercare gli
sviluppi della discussione.
Venendo al punto, vorrei partire (ma non è solo qui che intendo andare a
parare) da una "domandona" assai in voga negli ultimi anni:
«L'effetto della "decoerenza" è in grado di fornirci una nuova e
soddisfacente "interpretazione" della MQ?»
Per esplicitare in modo non ambiguo il senso di questa domanda se ne
dovrebbero formulare chissà quante altre, "a cascata": perché la "vecchia
interpretazione" non sarebbe soddisfacente? e perché alcuni nuovi teoremi
(quelli di decoerenza) hanno convinto tutti di poterli utilizzare per
ottenere una "nuova interpretazione"? quei teoremi non hanno già una
"interpretazione" nell'ambito della "vecchia interpretazione"? come fa un
"teorema" di un certo sistema assiomatico a retro-agire sui postulati del
sistema assiomatico stesso? eccetera eccetera. Tutto ciò magari potrebbe
anche essere interessante, ma ci porterebbe troppo lontano.
Io qui darò per scontate molte cose, e supporrò di poter trovare una "base
comune" con i miei eventuali interlocutori affermando che la difficoltà
maggiore della "vecchia interpretazione" (quella "ortodossa", o "di
Copenhagen") è il fatto che per poter dare un significato fisico alle
grandezze matematiche utilizzate occorre supporre di essere in presenza di
un dispositivo (macroscopico) di misura, o comunque di potere -almeno in
linea di principio- effettuare delle osservazioni con un tale dispositivo.
Così ad esempio diciamo che |x,t> è un vettore tale che <x,t|x,t>
rappresenta la probablità (o la densità di probabilità) che un quanto venga
"trovato" (= assorbito, emesso, rilevato) nella posizione x all'istante t.
Se non ci fosse alcun dispositivo in grado di rilevare il quanto non
sapremmo che significato fisico attribuire a |x,t> e -di conseguenza- a
tutte le grandezze da esso derivate.
Questa "interpretazione" comincia a porre dei problemi quando si decide di
applicare ma MQ allo studio dell'universo, per almeno due ragioni:
1) se immaginiamo di scrivere la "funzione d'onda" per tutto l'universo:
allora per definizione stiamo parlando di un sistema isolato, e non possiamo
supporre che ci sia un "dispositivo macroscopico" esterno al sistema stesso
e in grado di interagire con esso
2) se studiamo l'universo "nei primi istanti", quando esso doveva essere
costituito da un insieme di quanti ad altissime energie, non è assolutamente
concepibile neanche all'interno dell'universo la presenza di "dispositivi
macroscopici aventi proprietà classiche".
Il problema è quindi quello di poter dire qualcosa di *fisico* per un "gas
di quanti" *isolato*, e in questo contesto se ci si attiene alla
"interpretazione ortodossa" la MQ sembra inefficace.
Immagino (e spero) di aver detto -fino a qui- cose piuttosto scontate.
D'altra parte chi avesse dei dubbi sull'"oggetto della contesa" può
limitarsi a dare una occhiata ad un semplice testo divulgativo come _Il
quark e il giaguaro_ dove Gell-Mann lo dice espressamente:
«Questa interprertazione originaria della meccanica quantistica, limitata a
esperimenti ripetuti eseguiti da osservatori esterni, è troppo ristretta per
essere accettabile oggi come la sua caratterizzazione fondamentale,
specialmente da quando è diventato chiaro che la meccanica quantistica deve
applicarsi all'intero universo.»
Bene. Detto ciò si potrebbe pensare che basti andarsi a leggere gli articoli
di coloro che stanno lavorando a queste cose per rendersi conto di quale sia
"lo stato dell'arte" nella soluzione del problema di cui sopra.
Però le cose non sono così semplici come si potrebbe immaginare,
perché -come è noto- gli articoli che compaiono sulle riviste specialistiche
contengono una gran quantità di teoremi nuovi ed interessanti, ma di
"filosofia" ce n'è (forse giustamente) assai poca.
Ad esempio si dice spesso che la "nuova interpretazione" è quella delle
"storie quantiche", ma se poi si va a leggere un articolo "tecnico" si
trovano le storie definite come un certo prodotto operatoriale, si trovano
un bel po' di proprietà matematiche di tali "storie" eccetera. Ma una
"formulazione ufficiale" della "nuova interpretazione" è assai difficile
trovarla.
L'unico che -per quanto ne so- ha cercato seriamente di "tirare le fila"
(anche dal punto di vista filosofico, oltre che matematico) è Roland Omnès
in _The Interpretation of Quantum Mechanics_ (io ho l'edizione originale
della Princeton del 1994, non so se nel frattempo sia stato pubblicato anche
in italia).
Omnès osserva giustamente che il punto cruciale di tutta la questione è
quello di definire una qualche "proprietà fisica" per un sistema quantistico
*isolato*:
«A reliable definition of what is to be understood by a physical property of
a quantum system must firs be given. It may be noticed that, when doing so,
one already departs from Bohr, who denied a priory the existence of such
specific properties and reserved them for the macroscopic systems. [...] It
would certainly be unwise to continue acting as was done long ago, when
physics was going at a tremendous pace. Then one proceeded as there were a
direct and natural correspondence between wave functions, the Schrödinger
equation, and all this abstraction with a voltmeter, an oscillograph, or an
accelerator. Who can "see" clearly this correspondence. The gap is too wide.
One must therefore begin very carefully so that _even the first words to be
pronounced should be duly chosen_. These first words are intended to
introduce the notion of property for an _isolated system_.» [ibidem, p.
103-104, il corsivo è mio]
E quali sono quei _first words_ che dovrebbero essere _duly chosen_?
Eccoli qua:
«A property asserts the value of some observables in some range of real
numbers at a given time.»
L'autore si rende conto che il termine "osservabile" rischia di ritirare in
ballo lo strumento di misura, e quindi si affretta a chiarire che esso può
essere definito in modo autonomo introducendo una serie di oggetti
matematici, che sono il noto spazio di Hilbert degli stati con gli opportuni
operatori autoaggiunti, ecc. Fatto questo egli tenta di fornire una
definizione "autonoma":
«A property of a physical system refers to an isolated system S, an
observable A and a seal set D. It may be described by a sentence stating
that "the value of the observable A is in the set D." [...] one sees that
all the word or symbols occurring in it have already a meaning within the
conceptual framework of quantum mechanics; the observable A is formally a
self-adjoint operator, its values are its eigenvalues, and D is a real set.
So everything is defined except for the word "is."»
Ma si tratta di un problema apparente, infatti, come dice - proseguendo - l'
autore:
«One will not of course give a definition of the verb "to be," if only
because it would necessarily use what is to be defined when it would begin
by "to be is...." Fortunately, the formalism is quite helpful by providing a
projector as the mathematical equivalent for the full sentence expressing
the property. This is quite simple, if somewhat abstract, because the rules
for using it will turn out to be the rules for using a projector as a
mathematical object.»
Nel passo citato Omnès, con una punta di ironia, lascia al lettore il
compito di stabilire quale sia la definizione di essere. Ma qualunque sia la
definizione di "essere", è chiaro che matematicamente "essere in" un certo
insieme è del tutto equivalente ad "appartenere a" quel certo insieme.
Andiamo avanti. Per specificare cosa intendere con "il valore dell'
osservabile A", Omnès dice semplicemente che "A è formalmente un operatore
autoaggiunto" e che "i suoi valori sono i suoi autovalori". Bene, ora
sappiamo
cosa sono *i* valori di A, ma qual è *il* valore di A?
Questo Omnès non lo dice.
E d'altra parte è chiaro che il "significato
fisico" di quelle grandezze matematiche sta tutto in questo passaggio ad un
articolo determinativo singolare: fra tutti i valori di A ce n'è *uno*
particolare; e di questo particolare valore noi sappiamo che "è in" (=
appartiene a) l'insieme D.
Cos'ha di particolare *quel* certo autovalore di A, da poter essere preso
come "proprietà" di A?
A me verrebbe da dire, con Bohr: «E' quel valore che si ottiene quando la
proprietà associata ad A viene *osservata* con un dispositivo
macroscopico...» eccetera eccetera. Ma mi fermo qui perché so già che Omnès
non sarebbe d'accordo. Infatti in questo modo andiamo a finire di nuovo
nella "vecchia interpretazione".
Le altre possibilità ci forniscono solo delle banali tautologie. Potremmo
dire che fra tutti gli autovalori di A ce n'è uno che descrive lo "stato" in
cui si trova il sistema quantistico in un certo istante di tempo. Ma così
facendo ci troveremmo a dover definire lo "stato" di un sistema quantistico,
e come definirlo se non come l'insieme di tutte le sue "proprietà"? Dal che
se ne dedurrebbe la grande verità secondo cui «una proprietà di un sistema
fisico è un elemento dell'insieme di tutte le sue proprietà!» Ottimo,
ma -come dicevo- assolutamente tautologico.
Ebbene, io non sono stato in grado di trovare un altro passo di quel
ponderoso testo in cui Omnès spieghi il suo passaggio brusco e repentino da
*gli* autovalori di A a *quel certo* autovalore di A che dovrebbe definire
una "proprietà" (fisica) del sistema per il semplice fatto di essere "in D".
D'altra parte lo stesso Omnès, tentando di definire un po' più avanti uno
stato quantistico, è costretto ad uscire dal suo perfetto "isolamento", e lo
fa in maniera abbastanza contraddittoria da non far comprendere chiaramente
se lo strumento di misura è ancora in soffitta o è stato già rispolverato:
«the notion of state is basically probabilistic. It represents data allowing
the prediction of the probabilities for all the possible results of all
possible measurements. [...] We will say that the state of a system when one
can assign a definite probability to every conceivable property.»
Ho anche provato a sfogliare un po' di articoli degli altri protagonisti
della "nuova interpretazione" trovando addirittura una maggiore ingenuità
"filosofica" di quella mostrata da Omnès.
C'è qualcuno che ha le idee più chiare delle mie in proposito?
Grazie per l'attenzione e per le eventuali risposte.
Saluti,
Davide
Premetto all'esposizione della mia domanda una precisazione: seguo questo ng
solo saltuariamente e distrattamente, e non sono sicuro che quanto sto per
chiedere e affermare non sia già stato ampiamente discusso in passato. Onde
risparmiarvi fastidiose ripetizioni ho provato a fare delle ricerche con
google, ma ho trovato solo dei post che discutono gli argomenti in oggetto
senza afforntare gli aspetti che mi interessano maggiormente in questa
circostanza. Mi scuso pertanto nell'eventualità chiedessi cose già chiarite
e risapute, e pregherei in tal caso di indicarmi dove andare a cercare gli
sviluppi della discussione.
Venendo al punto, vorrei partire (ma non è solo qui che intendo andare a
parare) da una "domandona" assai in voga negli ultimi anni:
«L'effetto della "decoerenza" è in grado di fornirci una nuova e
soddisfacente "interpretazione" della MQ?»
Per esplicitare in modo non ambiguo il senso di questa domanda se ne
dovrebbero formulare chissà quante altre, "a cascata": perché la "vecchia
interpretazione" non sarebbe soddisfacente? e perché alcuni nuovi teoremi
(quelli di decoerenza) hanno convinto tutti di poterli utilizzare per
ottenere una "nuova interpretazione"? quei teoremi non hanno già una
"interpretazione" nell'ambito della "vecchia interpretazione"? come fa un
"teorema" di un certo sistema assiomatico a retro-agire sui postulati del
sistema assiomatico stesso? eccetera eccetera. Tutto ciò magari potrebbe
anche essere interessante, ma ci porterebbe troppo lontano.
Io qui darò per scontate molte cose, e supporrò di poter trovare una "base
comune" con i miei eventuali interlocutori affermando che la difficoltà
maggiore della "vecchia interpretazione" (quella "ortodossa", o "di
Copenhagen") è il fatto che per poter dare un significato fisico alle
grandezze matematiche utilizzate occorre supporre di essere in presenza di
un dispositivo (macroscopico) di misura, o comunque di potere -almeno in
linea di principio- effettuare delle osservazioni con un tale dispositivo.
Così ad esempio diciamo che |x,t> è un vettore tale che <x,t|x,t>
rappresenta la probablità (o la densità di probabilità) che un quanto venga
"trovato" (= assorbito, emesso, rilevato) nella posizione x all'istante t.
Se non ci fosse alcun dispositivo in grado di rilevare il quanto non
sapremmo che significato fisico attribuire a |x,t> e -di conseguenza- a
tutte le grandezze da esso derivate.
Questa "interpretazione" comincia a porre dei problemi quando si decide di
applicare ma MQ allo studio dell'universo, per almeno due ragioni:
1) se immaginiamo di scrivere la "funzione d'onda" per tutto l'universo:
allora per definizione stiamo parlando di un sistema isolato, e non possiamo
supporre che ci sia un "dispositivo macroscopico" esterno al sistema stesso
e in grado di interagire con esso
2) se studiamo l'universo "nei primi istanti", quando esso doveva essere
costituito da un insieme di quanti ad altissime energie, non è assolutamente
concepibile neanche all'interno dell'universo la presenza di "dispositivi
macroscopici aventi proprietà classiche".
Il problema è quindi quello di poter dire qualcosa di *fisico* per un "gas
di quanti" *isolato*, e in questo contesto se ci si attiene alla
"interpretazione ortodossa" la MQ sembra inefficace.
Immagino (e spero) di aver detto -fino a qui- cose piuttosto scontate.
D'altra parte chi avesse dei dubbi sull'"oggetto della contesa" può
limitarsi a dare una occhiata ad un semplice testo divulgativo come _Il
quark e il giaguaro_ dove Gell-Mann lo dice espressamente:
«Questa interprertazione originaria della meccanica quantistica, limitata a
esperimenti ripetuti eseguiti da osservatori esterni, è troppo ristretta per
essere accettabile oggi come la sua caratterizzazione fondamentale,
specialmente da quando è diventato chiaro che la meccanica quantistica deve
applicarsi all'intero universo.»
Bene. Detto ciò si potrebbe pensare che basti andarsi a leggere gli articoli
di coloro che stanno lavorando a queste cose per rendersi conto di quale sia
"lo stato dell'arte" nella soluzione del problema di cui sopra.
Però le cose non sono così semplici come si potrebbe immaginare,
perché -come è noto- gli articoli che compaiono sulle riviste specialistiche
contengono una gran quantità di teoremi nuovi ed interessanti, ma di
"filosofia" ce n'è (forse giustamente) assai poca.
Ad esempio si dice spesso che la "nuova interpretazione" è quella delle
"storie quantiche", ma se poi si va a leggere un articolo "tecnico" si
trovano le storie definite come un certo prodotto operatoriale, si trovano
un bel po' di proprietà matematiche di tali "storie" eccetera. Ma una
"formulazione ufficiale" della "nuova interpretazione" è assai difficile
trovarla.
L'unico che -per quanto ne so- ha cercato seriamente di "tirare le fila"
(anche dal punto di vista filosofico, oltre che matematico) è Roland Omnès
in _The Interpretation of Quantum Mechanics_ (io ho l'edizione originale
della Princeton del 1994, non so se nel frattempo sia stato pubblicato anche
in italia).
Omnès osserva giustamente che il punto cruciale di tutta la questione è
quello di definire una qualche "proprietà fisica" per un sistema quantistico
*isolato*:
«A reliable definition of what is to be understood by a physical property of
a quantum system must firs be given. It may be noticed that, when doing so,
one already departs from Bohr, who denied a priory the existence of such
specific properties and reserved them for the macroscopic systems. [...] It
would certainly be unwise to continue acting as was done long ago, when
physics was going at a tremendous pace. Then one proceeded as there were a
direct and natural correspondence between wave functions, the Schrödinger
equation, and all this abstraction with a voltmeter, an oscillograph, or an
accelerator. Who can "see" clearly this correspondence. The gap is too wide.
One must therefore begin very carefully so that _even the first words to be
pronounced should be duly chosen_. These first words are intended to
introduce the notion of property for an _isolated system_.» [ibidem, p.
103-104, il corsivo è mio]
E quali sono quei _first words_ che dovrebbero essere _duly chosen_?
Eccoli qua:
«A property asserts the value of some observables in some range of real
numbers at a given time.»
L'autore si rende conto che il termine "osservabile" rischia di ritirare in
ballo lo strumento di misura, e quindi si affretta a chiarire che esso può
essere definito in modo autonomo introducendo una serie di oggetti
matematici, che sono il noto spazio di Hilbert degli stati con gli opportuni
operatori autoaggiunti, ecc. Fatto questo egli tenta di fornire una
definizione "autonoma":
«A property of a physical system refers to an isolated system S, an
observable A and a seal set D. It may be described by a sentence stating
that "the value of the observable A is in the set D." [...] one sees that
all the word or symbols occurring in it have already a meaning within the
conceptual framework of quantum mechanics; the observable A is formally a
self-adjoint operator, its values are its eigenvalues, and D is a real set.
So everything is defined except for the word "is."»
Ma si tratta di un problema apparente, infatti, come dice - proseguendo - l'
autore:
«One will not of course give a definition of the verb "to be," if only
because it would necessarily use what is to be defined when it would begin
by "to be is...." Fortunately, the formalism is quite helpful by providing a
projector as the mathematical equivalent for the full sentence expressing
the property. This is quite simple, if somewhat abstract, because the rules
for using it will turn out to be the rules for using a projector as a
mathematical object.»
Nel passo citato Omnès, con una punta di ironia, lascia al lettore il
compito di stabilire quale sia la definizione di essere. Ma qualunque sia la
definizione di "essere", è chiaro che matematicamente "essere in" un certo
insieme è del tutto equivalente ad "appartenere a" quel certo insieme.
Andiamo avanti. Per specificare cosa intendere con "il valore dell'
osservabile A", Omnès dice semplicemente che "A è formalmente un operatore
autoaggiunto" e che "i suoi valori sono i suoi autovalori". Bene, ora
sappiamo
cosa sono *i* valori di A, ma qual è *il* valore di A?
Questo Omnès non lo dice.
E d'altra parte è chiaro che il "significato
fisico" di quelle grandezze matematiche sta tutto in questo passaggio ad un
articolo determinativo singolare: fra tutti i valori di A ce n'è *uno*
particolare; e di questo particolare valore noi sappiamo che "è in" (=
appartiene a) l'insieme D.
Cos'ha di particolare *quel* certo autovalore di A, da poter essere preso
come "proprietà" di A?
A me verrebbe da dire, con Bohr: «E' quel valore che si ottiene quando la
proprietà associata ad A viene *osservata* con un dispositivo
macroscopico...» eccetera eccetera. Ma mi fermo qui perché so già che Omnès
non sarebbe d'accordo. Infatti in questo modo andiamo a finire di nuovo
nella "vecchia interpretazione".
Le altre possibilità ci forniscono solo delle banali tautologie. Potremmo
dire che fra tutti gli autovalori di A ce n'è uno che descrive lo "stato" in
cui si trova il sistema quantistico in un certo istante di tempo. Ma così
facendo ci troveremmo a dover definire lo "stato" di un sistema quantistico,
e come definirlo se non come l'insieme di tutte le sue "proprietà"? Dal che
se ne dedurrebbe la grande verità secondo cui «una proprietà di un sistema
fisico è un elemento dell'insieme di tutte le sue proprietà!» Ottimo,
ma -come dicevo- assolutamente tautologico.
Ebbene, io non sono stato in grado di trovare un altro passo di quel
ponderoso testo in cui Omnès spieghi il suo passaggio brusco e repentino da
*gli* autovalori di A a *quel certo* autovalore di A che dovrebbe definire
una "proprietà" (fisica) del sistema per il semplice fatto di essere "in D".
D'altra parte lo stesso Omnès, tentando di definire un po' più avanti uno
stato quantistico, è costretto ad uscire dal suo perfetto "isolamento", e lo
fa in maniera abbastanza contraddittoria da non far comprendere chiaramente
se lo strumento di misura è ancora in soffitta o è stato già rispolverato:
«the notion of state is basically probabilistic. It represents data allowing
the prediction of the probabilities for all the possible results of all
possible measurements. [...] We will say that the state of a system when one
can assign a definite probability to every conceivable property.»
Ho anche provato a sfogliare un po' di articoli degli altri protagonisti
della "nuova interpretazione" trovando addirittura una maggiore ingenuità
"filosofica" di quella mostrata da Omnès.
C'è qualcuno che ha le idee più chiare delle mie in proposito?
Grazie per l'attenzione e per le eventuali risposte.
Saluti,
Davide